Quali i rischi legali per un’azienda in tempo di Covid-19: l’esperienza cinese
La diffusione di una pandemia o di altre crisi globalizzate possono avere un profondo impatto sulla capacita’ di gestione di un’ attivita’ imprenditoriale. In presenza di tali corcostanze, queste attivita’ sono chiamate a prendere misure precauzionali adeguate (tra cui, ad esempio, chiusura degli impianti, restrizioni negli spostamenti, assenza dall’ufficio) al fine di proteggersi contro la progressiva espansione dell’epidemia. Inevitabilmente, tali misure possono causare delle interruzioni e dei disagi nella catena distributiva di un’azienda -provocando ritardi e sospensioni temporanee nella produzione, nella logistica, nella distribuzione, nelle vendite o nella gestione dei servizi internazionali, rendendo, di fatto, estremamente difficile o, addirittura, impossibile rispettare le scadenze e gli impegni assunti contrattualmente. Le aziende si trovano, quindi, nella condizione di dover fronteggiare questioni di notevole rilevanza: “Un’ azienda puo’ essere ritenuta responsabile per inadempimento contrattuale in presenza di una situazione quale la diffusione di un’epidemia?”, “La prestazione effettuata con ritardo o l’eventuale rescissione dal contratto possono essere giustificate alla luce delle circostanze del caso concreto?”, “Quali strumenti legali sono, eventualmente, disponibili per un’azienda che versa in tali circostanze?”,”Quali misure possono essere adottate allo scopo di mitigare l’esposizione dell’azienda a rischi e penali?”.
Il presente articolo si prefigge l’obiettivo di fornire alcuni suggerimenti pratici affinche’le aziende possano tutelarsi contro eventuali possibili rischi legali. Vale la pena, tuttavia, sottolineare come la natura e il grado di esposizione di un’azienda dipende dai contenuti dei contratti da questa sottoscritti, dalla legge applicabile nella giurisdizione in cui e’ chiamata ad operare cosi’ come dalle eventuali direttive emanate dai rispettivi governi per fronteggiare la diffusione della pandemia.
Valutare i rischi legali derivanti dai contratti
Ai fine di valutare la posizione di un’azienda durante la diffusione di una pandemia e la sua eventuale esposizione a possibili rischi legali, sarebbe buona regola prendere in esame tutti i contratti sottoscritti e in vigore, ponendo particolare attenzione sia al linguaggio che al testo.
In particolare, sarebbe importante esaminare il contenuto di ciascun contratto per stabilire con precisione quale sia la giurisdizione, identificare le date, le parti contraenti, le penali, i rimedi, le clausole previste in caso di mancato adempimento, quelle in tema di rescissione e le eventuali procedure stabilite per poter far valere tali clausole. In caso di impossibilita’ di adempimento dovuta al verificarsi di un’epidemia, come ad esempio, la diffusione di una pandemia, occorrera’ verificare il contenuto di tali clausole alla luce della legge applicabile al contratto. Ad esempio, si ricorre spesso alla clausola di forza maggiore nei contratti commerciali per identificare eventi non preventivabili. Analogamente, negli accordi di concessione di prestito o di acquisizioni societarie si e’ soliti prevedere la c.d. clausola di “ material adverse change” per il caso in cui si verifichino gravi cambiamenti nella situazione patrimoniale, economica, finanziaria, fiscale, normativa, societaria di una o di entrambe le parti.
Applicabilita’ ed effetti della forza maggiore
La forza maggiore e’ un concetto legale, espressamente, previsto dal diritto contrattuale utilizzato per limitare la responsabilita’ della parte inadempiente in presenza di circostanze obiettivamente imprevedibili. In Cina, ad esempio, la forza maggiore puo’ essere invocata attraverso espressa clausola contrattuale oppure facendo riferimento ai principi sanciti dal codice civile cosi’ come dal diritto internazionale. La questione da porsi diventa, quindi, quella di stabilire se la diffusione di una infezione pandemica possa rientrare nell’ambito di operativita’ della clausola di forza maggiore e possa, dunque, in qualche modo, giustificare l’eventuale ritardo della prestazione e la conseguente responsabilita’ contrattuale. In presenza di tali circostanze, una dichiarazione da parte dell’Organizzazione Mondiale della Sanita’(WHO) o un annuncio ufficiale da parte di un Governo nazionale puo’ costituire una valida base giuridica in vista dell’invocazione della clausola di forza maggiore. Questo e’ avvenuto ad esempio, in Cina, in occasione della diffusione del COVID-19, dove il WHO ha dichiarato lo stato di emergenza pubblica. In particolare, il Ministero del Commercio cinese ha dichiarato, attraverso una comunicazione ufficiale del governo, la No. 50 del 2020, che le aziende non in grado di onorare i propri impegni contrattuali a causa della diffusione del COVID-19 erano autorizzate ad invocare le clausole di forza maggiore per ridurre le proprie perdite.
Le clausole di forza maggiore
E’ frequente che i contratti commerciali contengano una “clausola di forza maggiore” che consenta la sospensione della prestazione o, in presenza di alcune circostanze, la rescissione del contratto senza prevedere alcuna responsabilita’. Qualora tale clausola possa essere azionata durante la diffusione di una pandemia dipende dalle circostanze del caso concreto e dal linguaggio utilizzato nella formulazione della stessa clausola.
Di regola, una clausola di forza maggiore viene formulata appositamente in maniera generica allo scopo di includere un ampio raggio di scenari imprevedibili e si contraddistinguera’ per un contenuto simile al seguente:
“Per eventi di forza maggiore devono intendersi quegli eventi, che risultano essere al di fuori della sfera di controllo di una delle parti parti e che comprendono, ma non si limitano, ai disastri naturali, inondazioni, siccita’, guerre, contaminazioni, rivolte o atti terroristici”.
In linea di principio, la parte che risulta essere inadempiente deve dimostrare che l’epidemia rientra nell’ambito di applicazione e nello scopo della clausola di forza maggiore cosi’ come regolata ai sensi della legge che disciplina il contratto. Elementi chiave da considerare in tal senso comprendono:
– qualunque riferimento espresso all’epidemia, alla pandemia, al focolaio infettivo, alle malattie contagiose o ad un simile linguaggio da intendersi dalle parti come un evento di forza maggiore. Nel caso del COVID-19, la conferma ufficiale da parte del WHO che e’ in atto “una emergenza sanitaria pubblica di natura internazionale” vale quale prova convincente in tal senso.
– si sono effettivamente verificate le conseguenze del focolaio epidemico espressamente previste nella clausola, tra cui, ad esempio, la mancanza di mano d’opera, l’insufficienza di materie prime, scioperi; e
– l’impiego di un linguaggio sufficientemente generico tale da poter far rientrare in se’ l’ipotesi di una pandemia infettiva (come ad esempio, “qualunque evento che vada al di la’ della sfera di controllo delle parti”).
Il tribunale o il collegio arbitrale chiamato a pronunciarsi sulla validita’ della clausola di forza maggiore invocata da uno dei contraenti prendera’ in esame il contenuto della clausola alla luce delle altre disposizioni contrattuali, valutando l’entita’ e l’impatto dell’epidemia e di qualunque ordinanza governativa eventualmente emessa in materia. Il contraente, che invoca la clausola, dovra’, quindi, essere in grado di dimostrare che non esistevano soluzioni alternative a sua disposizione per adempiere ai propri obblighi contrattuali.
La forza maggiore ai sensi del diritto vigente nella Repubblica Popolare Cinese
Ai sensi delle normative in vigore nella Repubblica Popolare Cinese, la dottrina legale della “forza maggiore” trova applicazione, indipendentemente, dal fatto che sia, espressamente, prevista da apposita clausola contrattuale. Secondo quanto previsto, sia dall’articolo 153 dei “Principi Generali di Diritto Civile”, attualmente, vigente in Cina, sia dall’articolo 117 della Legge Sui Contratti, la forza maggiore viene definita come “una condizione imprevedibile, inevitabile e oggettivamente insormontabile”. Di seguito, i principali fattori impiegati dai tribunali arbitrali cinesi al fine di stabilire se un determinato evento possa essere qualificato quale “forza maggiore”.
– L’impatto che l’epidemia ha avuto sulla capacita’ delle parti di effettuare le rispettive obbligazioni contrattuali;
– Verifica dell’effettiva inevitabilita’ e insormontabilita’ delle circostanze del caso concreto;
– Verifica dell’effettiva imprevedibilita’ dell’evento;
– Verifica dell’impossibilita’ parziale o totale di effettuare la prestazione contrattuale alla luce delle altre circostanze del caso concreto.
Qualora sia ravvisabile una situazione di forza maggiore, non e’ prevista alcuna responsabilita’ civile a carico della parte per inadempimento contrattuale o per i danni causati a terzi, salvo quanto espressamente previsto dalla legge (articolo 107 dei “Principi Generali in materia di Diritto Civile” della Repubblica Popolare Cinese). In tali circostanze, le parti hanno facolta’ di recedere dal contratto, qualora la presenza di una situazione di forza maggiore abbia frustrato lo scopo stesso del contratto (articolo 94 della Legge sui Contratti della Repubblica Popolare Cinese).
Per poter beneficiare di tale previsione legislativa, tuttavia, la parte inadempiente e’ tenuta a fornire tempestiva comunicazione alla controparte unitamente alla dimostrazione che l’evento che ha reso impossibile la prestazione era imprevedibile, inevitabile e insormontabile. Tale prova puo’ assumere la forma di un “certificato di forza maggiore” emesso dalle autorita’ nazionali quali il
Consiglio Cinese per la Promozione del Commercio Internazionale (China Council for the Promotion of International Trade, CCPIT). Ciononostante, il certificato non e’ determinante in quanto un tribunale nazionale o un organo arbitrale internazionale hanno comunque la facolta’ discrezionale di respingere un eventuale richiesta fondata sulla forza maggiore anche in presenza di un certificato emesso dal CCPIT.
La forza maggiore nel diritto internazionale
La definizione di “forza maggiore” prevista dalle normative vigenti in Cina e’ analoga a quella contenuta nei Principi Generali in materia di Contratti Commerciali Internazionali (PICC). Ai sensi dell’articolo 7.1.7(1) dei PICC, la forza maggiore viene definita come” la mancata prestazione di una parte dovuta ad un impedimento al di la’ del suo controllo, che non avrebbe potuto essere ragionevolmente prevista al momento della conclusione del contratto, essere evitata o superata”.
Secondo quanto elaborato dalla dottrina internazionale, nel concetto di forza maggiore si fanno rientrare, di regola, i disastri naturali (incendi, terremoti, inondazioni, uragani e siccita’) ed altri eventi innaturali (guerre, attacchi terroristici, scioperi, rivolte e ordinanze governative). Le parti sono, tuttavia, libere di negoziare e prevedere all’interno del proprio accordo specifiche situazioni ed eventi identificate come forza maggiore. E’ prassi consolidata che le parti di un contratto internazionale decidano di sottoporre il suo contenuto alla disciplina prevista dal PICC, nel qual caso quanto appena indicato trovera’ espressa applicazione. Anche nell’ipotesi, in cui le parti abbiano optato per sottoporre il proprio contratto a diversa disciplina, i Principi Generali in materia di Contratti Commerciali Internazionali potranno, comunque, trovare applicazione, integrando le disposizioni contenute nella normativa prescelta dalle parti e addirittura svolgere ruolo di prova in tribunale.
Il caso dell’adempimento parziale
Gli eventi di forza maggiore non sempre consentono alla parte inadempiente di essere integralmente esente da responsabilita’ contrattuale per il caso di inadempimento.
Il grado di esenzione della responsabilita’ dipendera’ dalla durata e dall’impatto che l’evento ha sulla capacita’ della parte di portare a termine le proprie obbligazioni contrattuali.
Se l’esecuzione della prestazione contrattuale dovesse risultare impossibile a causa di un evento di forza maggiore, il contratto dovrebbe ritenersi concluso e la responsabilita’ per inadempimento non configurabile. Tuttavia, qualora le circostanze rendano possibile l’esecuzione parziale della prestazione, le parti saranno libere di modificare conseguentemente i termini del contratto, che pertanto, rimarra’ in vigore e l’esenzione da eventuale inadempimento contrattuale potra’ essere solo parziale. Viceversa, nel caso in cui la parte dovesse risultare gia’ in ritardo nell’esecuzione della propria prestazione prima del verificarsi dell’evento di forza maggiore, la responsabilita’ per inadempimento contrattuale non potra’ essere eccepita.
Secondo il prevalente orientamento dei tribunali, e’ estremamente importante accertare se la parte inadempiente si sia attivata per ridurre, ove possibile, l’entita’ dei danni subiti dalla controparte. Questo comporta, ad esempio, la tempestiva comunicazione alla controparte della propria impossibilita’ ad effettuare la prestazione contrattuale (come previsto ai sensi dell’articolo 118 della legge sui contratti in vigore nella Repubblica Popolare Cinese) e l’adozione da parte di quest’ultima delle misure necessarie per ridurre o prevenire ulteriori danni. A questo riguardo, qualora la controparte non si adoperi in tal senso e questo determini un incremento dei danni subiti, tale incremento non potra’ formare oggetto di richiesta di risarcimento. Le spese sostenute dalla controparte per evitare l’incremento dei danni potranno essere rimborsate dalla parte inadempiente (articolo 119 della legge sui contratti in vigore nella Repubblica Popolare Cinese).
Suggerimenti pratici volti a ridurre i i rischi legali
1. Revisione dei contratti in essere e della relativa documentazione per stabilire eventuali rischi e responsabilita’ legali
i) Verificare se l’adempimento delle prestazioni contrattuali sia divenuto impraticabile o impossibile in vista della invocazione della clausola di forza maggiore.
ii) Prestare particolare attenzione alle notifiche o alle condizioni preliminari richieste per poter invocare la clausola di forza maggiore.
2. Valutare le normative aziendali e le “policies” interne in vigore in tempi dell’epidemia e la gestione dei conseguenti flussi lavorativi
i) Esaminare le “policies” aziendali in tema di salute e sicurezza, i canali dedicati alla comunicazione interna, le coperture previste dalle polizze assicurative aziendali, le opzioni di riserva nell’ambito della filiera produttiva.
ii) Le aziende dovrebbero munirsi di adeguato materiale di protezione per i dipendenti (mascherine, guanti, disinfettante, come previsto da diverse ordinanze governative locali) prima di riprendere le proprie attivita’ lavorative.
3. Familiarizzare con le ordinanze locali e statali in vigore nel settore industriale di appartenenza e raccogliere la documentazione in tempo reale
Fare estrema attenzione alle modifiche e agli aggiornamenti delle ordinanze regionali e locali e assicurarsi che le “policies” aziendali siano conformi alle disposizioni in vigore nella propria area geografica.
Leggere con attenzione le informative governative per capire se si tratti soltanto di misure a titolo di raccomandazione oppure a carattere obbligatorio.
4. Raccogliere la documentazione a supporto delle perdite subite a causa dell’epidemia
Mantenere traccia dettagliata delle perdite subite a causa dell’epidemia affinche’ possa essere prodotta in vista di eventuali contestazioni.
5. Mantenere stretta comunicazione con propri partners, clienti e fornitori
Adoperarsi per mantenere uno stretto scambio di tutte le informazioni piu’ importanti tra l’azienda e i propri partners, clienti e fornitori.
Nel caso in cui le perdite subite dalla controparte contrattuale possano essere ridotte o evitate, sarebbe estremamente importante adoperarsi in tal senso.
Come cambiano le Aliquote Fiscali per i Trasferimenti Immobiliari nella città di New York nel 2019
La legge di bilancio, approvata di recente dal Parlamento dello Stato di New York, ha introdotto alcune modifiche significative in tema di imposizione fiscale sui trasferimenti immobiliari. In particolare, i legislatori sono intervenuti per modificare il contenuto, rispettivamente, degli articoli 1402 e 1402, lettera (a) del codice fiscale ed hanno, altresì, aggiunto la previsione contenuta nella lettera (b) dello stesso articolo 1402. In particolare, tali disposizioni troveranno applicazione unicamente ai trasferimenti immobiliari avvenuti a far data dal 1 luglio, 2019; non si applicano, invece, a tutte le compravendite sottoscritte prima del 1 aprile 2019.
In conseguenza di queste modifiche, la nuova aliquota prevista in caso di trasferimenti immobiliari nella città’ di New York (in tutti e cinque i comuni) risulterà’ pari a $3.25 per ogni $500 del valore complessivo della compravendita, invece, dei precedenti $2.00. Tale aliquota si applica: i) in tutti i casi in cui il valore della compravendita di un immobile residenziale risulti pari o superiore ai $3 mil. (inclusi, ad esempio, gli appartamenti siti in condomini e/o in cooperative) e ii) in tutti gli altri casi in cui non si tratti di immobili residenziali, purché’ il valore complessivo del trasferimento sia uguale o superiore ai $2 mil.
A partire dal 1 luglio 2019, l’importo della mansion tax, prevista, di regola, a carico del venditore, in tutti i casi di compravendite del valore superiore ad $1 mil., e’ stato anche’ esso aumentato in maniera, tuttavia, graduale, a seconda, cioe’, del valore del trasferimento immobiliare e sempre chè l’immobile si trovi nella città di New York. Ai sensi della nuova normativa, le aliquote saranno le seguenti:
Prezzo di acquisto Aliquota Mansion Tax
Fino a $999,99 0.00
Tra $1,000,000 e $1,999,999 1.00%
Tra $2,000,000 e $2,999,999 1.25%
Tra $3,000,000 e $4,999,999 1.50%
Tra $5,000,000 e $9,999,999 2.25%
Tra $10,000,000 e $14,999,999 3.25%
Tra $15,000,000 e $19,999,999 3.50%
Tra $20,000,000 e $24,999,999 3.75%
Da $25 mil. in su 3.90%
“Seminario Confindustria Alto Milanese, in collaborazione con Camera di Commercio di Milano, Unioncamere Lombardia e Promos: Vendere negli Stati Uniti d’America”
seminario legnano 9 novembre USA
La disciplina del contratto di vendita negli Stati Uniti d’America
Il contratto di vendita, sottoscritto da un venditore italiano ed un acquirente statunitense, è, di regola, sottoposto alla disciplina prevista dalla Convenzione di Vienna del 1980. Tuttavia, sono frequenti i casi in cui, su espressa richiesta del partner statunitense, le parti decidano di optare per l’applicazione della legge in vigore negli Stati Uniti, in luogo della Convenzione.
Affinchè ciò avvenga, è necessario che il contratto, stipulato tra le parti, contenga apposita clausola in tal senso. Così come avviene in Italia, anche negli Stati Uniti la vendita di beni mobili è regolata dal diritto interno ed, in particolare, dall’articolo 2 dello Uniform Commercial Code (UCC).
Lo Uniform Commercial Code è, attualmente, in vigore in tutti gli Stati della Confederazione (ad eccezione della Louisiana), seppur con alcune variazioni e modifiche, introdotte dalle rispettive normative, che ne hanno recepito il contenuto a livello statale. Ai sensi dell’art. 2 dello UCC, il contratto di vendita deve essere stipulato per iscritto, in tutti i casi in cui il valore della merce oggetto del contratto sia uguale o superiore ai $500, pena l’impossibilita’ di ottenere l’esecuzione del contratto.
E’, pertanto, necessario che risulti per iscritto che le parti hanno raggiunto un accordo e che tale accordo sia sottoscritto da entrambe. E’, altresì, richiesto che il contratto, redatto per iscritto, contenga l’indicazione della quantita’ della merce venduta: il contratto, infatti, è eseguibile solo nei limiti della quantità indicata o desumibile dal contratto.
La forma scritta non è, invece, necessaria in alcuni casi specifici tra cui, ad esempio, quando:
1) la merce e’ stata appositamente prodotta per rispondere alle esigenze particolari dell’acquirente
2) la parte, contro la quale si chiede l’esecuzione del contratto, ha ammesso l’esistenza del contratto in giudizio
3) il contratto e’ stato parzialmente eseguito
Obbligo fondamentale del venditore è, ovviamente, quello di consegnare la merce venduta all’acquirente e trasferire a quest’ultimo la proprieta’ della stessa. Tale obbligo e’ puntualmente previsto dallo UCC. Non e’, invece, stabilito il momento in cui l’acquirente diventa proprietario della merce. Questo aspetto viene, infatti, lasciato alla libera determinazione delle parti e alla legge applicabile. Di regola, le parti stabiliscono espressamente all’interno del loro contratto che la proprieta’ della merce si trasferisce all’acquirente solo a seguito del pagamento del prezzo.
Negli Stati Uniti, invece, la legge non consente al venditore di ritenere alcun titolo sulla merce venduta. Proprio per evitare che il venditore possa trovarsi nella spiacevole condizione di non poter recuperare la merce non pagata, lo UCC introduce una forma di tutela, che consente al venditore di iscrivere una sorta di ipoteca su alcuni beni mobili di proprieta’ dell’acquirente, attraverso la stipulazione di specifico accordo scritto o, eventualmente, di apposita clausola, inserita nel contratto di vendita. Ai fini della sua validità, il documento deve risultare conforme alle disposizioni in vigore nello Stato, in cui risiede l’acquirente.
Una soluzione, quest’ultima, che puo’ rivelarsi utile anche nel caso in cui il venditore italiano abbia lasciato le merci in conto deposito presso il proprio distributore statunitense. Altrettanto importante è stabilire quando e chi, tra le parti, sia chiamato a sostenere i costi derivanti dalla perdita, dal furto, dal danneggiamento o dalla distruzione della merce oggetto del contratto. Tale rischio ricade, inizialmente, sul venditore ma passa al compratore in un momento successivo della transazione. Sul punto lo UCC opera una distinzione: il caso, in cui il venditore si impegna a spedire la merce all’acquirente e quello, invece, in cui il venditore si impegna a consegnare la merce all’acquirente in un luogo determinato. Nel primo caso, ipotesi che si applica normalmente in mancanza di patto contrario, il rischio di perdita o deterioramento della merce passa all’acquirente nel momento in cui la merce viene consegnata al trasportatore per la sua successiva spedizione. Nel secondo caso, invece, il venditore si assume il rischio legato alla sorte della merce durante il suo trasporto e fino al momento in cui la stessa viene messa a disposizione dell’acquirente nel luogo convenuto.
Per quanto riguarda i termini di consegna, se le parti non hanno espressamente indicato quando la merce dovrà essere consegnata, ai sensi dello UCC, la consegna dovrà avvenire entro un termine ragionevole, tenendo conto del tipo di vendita effettuata.
Lo UCC contiene, inoltre, una serie di disposizioni, volte a disciplinare le garanzie, che il venditore è tenuto, per legge, a fornire all’acquirente in relazione alla merce venduta. Ai sensi di tali disposizioni, la merce deve risultare conforme alle promesse e alle descrizioni fornite dal venditore all’acquirente e sulle quali quest’ultimo ha fatto affidamento al momento della conclusione della transazione. Il venditore deve, altresi’, garantire la titolarità dei diritti sulla merce venduta, che quest’ultima non violi diritti sui marchi, brevetti, diritti d’autore od altri diritti espressamente tutelati dalla legge, che la merce sia idonea all’uso per il quale merce dello stesso tipo viene comunemente utilizzata, che sia adeguatamente confezionata, imballata ed etichettata e che sia idonea allo specifico utilizzo per il quale e’ stata acquistata, essendo tale utilizzo stato reso noto al venditore al momento della sottoscrizione del contratto.
Tutte le garanzie appena elencate possono essere limitate o, in certi casi, addirittura escluse, attraverso espressa dichiarazione da parte del venditore (Disclaimer). Per poter essere valido, ciascun discalimer deve, tuttavia, risultare conforme a specifici canoni dettati dalla legge. La semplice dichiarazione, nella quale il venditore comunica all’acquirente che la merce viene venduta senza alcuna garanzia è, di regola, ritenuta inefficace.
A differenza di quanto previsto dal codice civile, ai sensi del quale il termine per contestare eventuali vizi della merce è di 8 giorni, lo UCC consente all’acquirente di contestare al venditore eventuali difetti della merce entro un “termine ragionevole” dalla loro scoperta. I tribunali americani, che si sono pronunciati in merito a contratti di compravendita disciplinati dallo UCC, si sono dimostrati meno restrittivi nell’interpretare il concetto di “termine ragionevole”, riconoscendo all’acquirente un termine decisamente piu’ ampio per ispezionare la merce e contestare la presenza di eventuali difetti al venditore, che deve essere valutato alla luce della natura e delle circostanze del caso concreto.
Negli Stati Uniti, lo UCC prevede, altresì, una serie di opzioni a disposizione, rispettivamente, del compratore e dell’acquirente per i casi di inadempimento della controparte. In particolare, qualora il venditore si rifiuti di consegnare la merce convenuta o l’acquirente la rifiuti in quanto non conforme a quella ordinata, quest’ultimo potrà richiedere la risoluzione del contratto, con la restituzione dei pagamenti effettuati ed, eventualmente, anche il risarcimento dei danni.
Al compratore è consentito revocare l’avvenuta accettazione della merce, qualora scopra (e denunci al venditore entro un tempo ragionevole) eventuali vizi occulti. Vale la pena sottolineare che, negli Stati Uniti, il compratore, oltre a potersi avvalere della facolta di non pagare il prezzo, ha anche il diritto di acquistare merce sostitutiva da terzi e chiedere poi un indennizzo al venditore pari alla differenza tra il prezzo pagato per tale merce e quello convenuto nel contratto.
Qualora il compratore si rifiuti, senza giustificato motivo, di prendere in consegna la merce o di accettarla, il venditore ha diritto al risarcimento del danno, pari alla differenza tra il prezzo pattuito nel contratto e quello di rivendita della merce. In alternativa, il venditore può citare il compratore in giudizio per il pagamento del prezzo, nel caso in cui non riesca a rivendere la merce ad un prezzo ragionevole: in tal caso, il venditore deve tenere la merce a disposizione della controparte.
In caso di inadempimento contrattuale, il termine di prescrizione per l’esercizio della relativa azione legale è fissato dallo UCC in 4 anni. Alcuni Stati della Confederazione, tuttavia, hanno adottato un termine diverso: Arizona, Massachusettes, Nevada e Washington (6 anni), Colorado (3 anni), Florida (5 anni), Louisiana (10 anni).
FARE AFFARI IN CANADA
Il Canada è, secondo le statistiche fornite da Forbes e Bloomberg, il paese, tra quelli del G20, che offre le migliori condizioni economico-finanziarie per avviare un’attivita’ imprenditoriale. A giudizio dell’Economist Intelligence Unit, tali condizioni sono destinate a perdurare anche per i prossimi 4 anni, fino al 2020.
I tempi e le procedure richieste per aprire un’attivita’ commerciale sono di soli due giorni, come confermato dai dati resi noti, nel 2016, dalla Banca Mondiale.
Tra i paesi del G7, quella canadese è l’economia che, nel lungo periodo, offre le migliori prospettive di crescita ai ritmi piu’ rapidi, superiori, addirittura, a quella statunitense, come evidenziato nel rapporto del Global Interim Economic Outlook, pubblicato nel febbraio del 2016. Nel tentativo di conciliare i fabbisogni degli investitori stranieri con la necessita’ di mantenersi competitivi, il Canada e’ in grado di offrire costi di gestione assai contenuti e le imposte sui redditi d’impresa piu’ basse, tra quelle applicate nei paesi del G7, oltre a fornire incentivi e benefici fiscali alle aziende interessate ad investire in loco.
Secondo un’analisi comparativa, effettuata dallo studio internazionale KPMG, i costi complessivi di gestione, che un’azienda si troverebbe ad affrontare, stabilendosi in Canada, sarebbero inferiori a quelli riscontrabili negli altri paesi del G7, inferiori di ben 14.6% rispetto, ad esempio, a quelli che si dovrebbero affrontare negli Stati Uniti.
L’estrema competitività dei costi d’impresa, il piu’ favorevole ambiente imprenditoriale, tra i paesi del G20 ed un accesso privilegiato ai principali mercati emergenti, sono alcuni dei fattori, che rendono le città canadesi la destinazione ideale per chi desidera investire all’estero. Secondo il rapporto pubblicato da Pricewaterhouse, alla fine del 2016, l’imposizione fiscale a carico delle aziende, che operano in Canada, sarebbe superiore soltanto a quella dell’Arabia Saudita, tra i paesi del G20.
L’aliquota complessiva prevista, sia a livello federale che provinciale, è passata, infatti, dal 42.4% del 2000 al 26.3% del 2015, ben 12.7 punti percentuali in meno rispetto a quella in vigore negli Stati Uniti.
Estremamente vantaggioso si sta rivelando il programma, messo a punto del Governo federale, a favore delle aziende straniere, che operano nel settore della Ricerca e Sviluppo, grazie alla previsione di crediti d’imposta ed incentivi fiscali.
Incentivi sono previsti, in particolare, per i costi diretti sostenuti dalle aziende, nell’ambito delle attivita’ di sviluppo sperimentale, ricerca applicata, attività ingegneristiche, progettazione, ricerca operativa, analisi, programmazione, raccolta dati e collaudi.
L’accesso al programma ed ai relativi benefici fiscali puo’ essere richiesto sia dalla capogruppo estera di un’azienda, che opera in Canada, sia dalla controllata canadese. Sono, altresì, disponibili per le aziende straniere, che intendono investire in Canada, una vasta gamma di ulteriori incentivi previsti, sia a livello federale che provinciale. Chi decide di investire in Canada beneficia, altresì, della partecipazione del paese all’accordo di libero scambio in vigore con Stati Uniti e Messico (NAFTA), in grado di garantire l’accesso ad un mercato con un prodotto interno lordo pari a $30 mila miliardi. La prossima entrata in vigore, prevista nel corso del 2017, del Comprehensive Economic and Trade Agreement, stipulato tra il Canada e l’Unione Europea, dovrebbe, ulteriormente, favorire gli scambi commerciali al di la’ e al di qua dell’oceano.
I settori, che offrono le migliori opportunità di investimento per le aziende straniere interessate al mercato canadese comprendono, in particolare, il manifatturiero avanzato, l’information and communication technology, l’agroalimentare, le scienze biologiche, le risorse naturali, la produzione di sostanze chimiche e materie plastiche.
Riconoscimento ed esecuzione negli Stati Uniti d’America delle sentenze straniere, che comportano il pagamento di una somma di denaro
Nonostante la Costituzione americana stabilisca, espressamente, il principio secondo cui, qualunque sentenza, sia che provenga da un tribunale statale che da uno federale, debba ottenere automatico riconoscimento ed esecuzione in ciascuno Stato della Confederazione, a condizione che tale sentenza sia stata ivi appositamente registrata (Articolo IV della Costituzione americana), lo stesso principio non trova, tuttavia, applicazione in riferimento alle sentenze emesse da un tribunale di un Paese straniero.
La ragione risiede nel fatto che non esiste, negli Stati Uniti, alcuna legge federale o trattato internazionale, che disciplini il riconoscimento e l’esecuzione in USA di sentenze straniere (a differenza, ad esempio, di quanto previsto dalla Convenzione di New York, ratificata dagli Stati Uniti nel 1970, che, in materia di arbitrato, stabilisce, invece, l’automatico riconoscimento ed esecuzione delle sentenze arbitrali pronunciate nell’ambito degli Stati firmatari).
Sebbene, dunque, la Costituzione americana riconosca al Congresso il potere di legiferare in materia di commercio internazionale e quindi, teoricamente, anche di pronunciarsi sul tema del riconoscimento e dell’esecuzione delle decisioni rese da tribunali stranieri, sino ad oggi, il Congresso non si è mai avvalso di tale facoltà.
Per queste ragioni, negli Stati Uniti, la materia del riconoscimento e dell’esecuzione delle decisioni emesse da organi giudicanti stranieri è disciplinata, quasi interamente, a livello statale: è lasciata, cioè, all’autonomia legislativa dei singoli Stati della Confederazione.
La mancanza di una disciplina organica, che potesse trovare applicazione nell’ambito dell’intero territorio nazionale ha, tuttavia, stimolato l’intervento della National Conference of Commissioners on Uniform State Laws, che, nel 1962, ha inteso colmare tale vuoto normativo, attraverso la redazione di un apposito statuto intitolato Uniform Foreign Money Judgments Recognition Act (UFMJRA). Si tratta di un documento, che si propone di fornire ai singoli Stati della Confederazione, i criteri e le procedure da adottare nel valutare l’idoneità delle sentenze emesse da tribunali stranieri ad ottenere riconoscimento e successiva esecuzione all’interno del territorio nazionale.
Ben 30 dei 50 Stati della Confederazione, oltre al Distretto di Columbia e alle Isole Vergini statunitensi, hanno provveduto alla sua adozione attraverso appositi interventi legislativi (Alaska, California, Colorado, Connecticut, Delaware, Florida, Georgia, Hawaii, Idaho, Illinois, Iowa, Maine, Maryland, Massachusetts, Michigan, Minnesota, Missouri, Montana, New Jersey, New Mexico, New York, North Carolina, North Dakota, Ohio, Oklahoma, Oregon, Pennsylvania, Texas, Virginia e Washington).
Il crescente volume di affari, registrato negli Stati Uniti, nel settore del commercio internazionale ha, tuttavia, determinato un considerevole aumento delle controversie e, conseguentemente, un numero sempre maggiore di sentenze straniere sono state depositate presso i tribunali statali per ottenere esecuzione. Al fine di gestire questa nuova realtà e far fronte alle numerose richieste, i redattori dello statuto del 1962 sono intervenuti, nuovamente, e hanno provveduto ad integrare la versione originale dando alla luce, nel 2005, l’Uniform Foreign Country Money Judgments Recognition Act (UFCMJRA).
La nuova disciplina prevede, espressamente, che la parte richiedente il riconoscimento negli Stati Uniti di una sentenza straniera è tenuta non solo ad instaurare apposito procedimento davanti al tribunale dello Stato, nel quale intende ottenere l’esecuzione, ma anche a dimostrare che la sentenza straniera rientra nell’ambito di applicazione dello statuto di cui sopra: l’onere della prova è , pertanto, a carico della parte, che chiede il riconoscimento negli Stati Uniti della sentenza straniera. Lo statuto del 2005 contiene, altresi’, un’espressa indicazione della procedura prevista per ottenere il riconoscimento di una sentenza straniera in territorio statunitense, che può avvenire, sia attraverso l’istituzione di apposito procedimento oppure, qualora un procedimento del genere sia già in corso, attraverso la presentazione di domanda riconvenzionale. Il termine di prescrizione previsto per la richiesta della domanda di riconoscimento di una sentenza straniera, che disponga il pagamento di una somma di denaro, è di 15 anni dalla data, in cui tale sentenza è divenuta esecutiva.
Vale la pena sottolineare come l’ambito di applicazione dello statuto è limitato alle sole decisioni provenienti da tribunali di paesi stranieri, che comportino il pagamento di una somma di denaro: non rientrano, tuttavia, nella previsione normativa dello statuto, le sentenze che dispongono il pagamento di tasse e/o di sanzioni di altra natura, così come quelle decisioni, in materia di diritto di famiglia, che stabiliscono il pagamento di alimenti o il versamento di assegni di mantenimento, sottoposte alla disciplina di appositi statuti statali.
Una sentenza, per poter ottenere riconoscimento negli Stati Uniti, deve essere, inoltre, definitiva, inoppugnabile ed esecutiva, secondo quanto disposto dalle norme processuali vigenti nel paese, in cui la sentenza stessa è stata pronunciata.
REGISTRARE UN MARCHIO NEGLI STATI UNITI
Da sempre il mercato statunitense offre innumerevole opportunità di investimento alle aziende italiane, interessate ad espandere la propria presenza commerciale oltre i confini nazionali. Per poter gestire con successo la propria attività imprenditoriale in loco, ciascuna azienda italiana è chiamata, tuttavia, ad individuare non solo la strategia più adatta, in vista della distribuzione commerciale dei propri prodotti, ma anche e, soprattutto, a limitare i rischi connessi all’ingresso di tali prodotti oltreoceano, proteggendoli, ad esempio, dai tentativi di contraffazione operati dalla concorrenza.
Il marchio svolge proprio una funzione di protezione, consentendo al suo titolare, di prevenire eventuali tentativi della concorrenza di appropriarsi, illegittimamente, del successo ottenuto da un prodotto che, quasi sempre, agli occhi del consumatore, è, indissolubilmente, legato al marchio che rappresenta. Ben si comprende, quindi, come il marchio rivesta per l’azienda, che ne è titolare, un ruolo strategico di assoluto rilievo e come, spesso, rappresenti un patrimonio irrinunciabile, al quale corrisponde un valore economico, talvolta, pari o, addirittura, superiore a quello dell’azienda stessa.
Sebbene da diversi anni si assista, a livello internazionale, ad un tentativo di rendere il diritto dei marchi più omogeneo, attraverso la previsione di norme comuni e procedure di registrazione simili nei diversi Paesi, tuttavia, il regime, tuttora, vigente negli Stati Uniti lo rende per certi aspetti unico e, come tale, meritevole di una trattazione specifica e distinta.
Negli Stati Uniti, affinché un marchio possa essere considerato tale, deve possedere i requisiti della novità, liceità e capacità distintiva. Come sappiamo, i marchi sono strumenti utilizzati per identificare e distinguere i prodotti o i servizi del titolare da quelli di un altro soggetto. Pensiamo, ad esempio, al marchio Coca-Cola, che distingue la bibita gasata di colore scuro di un produttore da quella, altrettanto, gasata ed, altrettanto, scura di un altro produttore (Pepsi-Cola).
Negli Stati Uniti, i marchi possono essere costituiti da parole, simboli, frasi, slogans, numeri, disegni, suoni ed anche dalla particolare confezione e configurazione di un prodotto. Come accennato in precedenza, affinché un marchio possa essere considerato valido negli USA è necessario che sia utilizzato in forma “distintiva”: che sia, cioè, in grado di identificare l’origine del prodotto o del servizio in relazione al quale è utilizzato, nonché di distinguere quel prodotto o quel servizio da quello di altri.
Per stabilire se un marchio presenti o meno il carattere “distintivo”, i tribunali americani raggruppano i marchi in quattro distinte categorie, a seconda della relazione che li lega al prodotto o al servizio al quale vengono associati: 1) marchi arbitrari o di fantasia, 2) marchi suggestivi, 3) marchi descrittivi o 4) marchi generici. Per ciascuna categoria la legge prevede un grado di protezione e requisiti diversi tra loro. Negli Stati Uniti, affinché un marchio possa attribuire al suo titolare il diritto esclusivo di uso, occorre, innanzitutto, che si tratti di un marchio, effettivamente, utilizzato in commercio. In assenza di un tale utilizzo, la legge considera il marchio come “inesistente” e, conseguentemente, non meritevole di alcuna tutela e protezione giuridica. I marchi meritevoli di tutela e di protezione sono disciplinati sia a livello statale che federale. Alle origini, il diritto comune (“common law”), così come era stato elaborato dagli statuti dei diversi Stati della Confederazione, rappresentava la principale fonte di protezione dei marchi.
I diritti del titolare erano limitati, però, all’area geografica nella quale il marchio veniva utilizzato. Se, ad esempio, un’azienda aveva deciso di commercializzare una particolare miscela di caffè dal nome “Blaster” soltanto in California, i suoi diritti di utilizzare quel marchio erano limitati, pertanto, al solo Stato californiano. Il fatto, poi, che un’altra azienda, non a conoscenza dell’esistenza della prima, avesse iniziato a vendere, nello Stato di New York, una diversa miscela di caffè utilizzando lo stesso nome (“Blaster”), non rappresentava, ai sensi della common law, una violazione della legge sui marchi. Se, tuttavia, l’azienda newyorkese avesse, successivamente, deciso di distribuire il proprio prodotto a livello nazionale, il diritto dell’azienda californiana di utilizzare quel marchio in California avrebbe rappresentato un ostacolo insormontabile alla distribuzione di quel prodotto in quello Stato. Dal momento che, ai sensi del diritto comune, non è richiesto alcun obbligo di registrazione per utilizzare un marchio, può essere piuttosto difficile scoprire chi ne sia l’effettivo titolare.
La legge prescrive, tuttavia, che, prima di poter usare un marchio, siano compiute tutte le opportune ricerche volte ad individuare l’eventuale titolare. Verso la fine del 1800, il Congresso americano emanò la prima legge federale sui marchi. Da allora, la normativa federale è andata, costantemente, espandendosi, sottraendo al diritto comune gran parte della sua competenza in materia di marchi. Attualmente, le norme federali costituiscono la fonte principale e, senza dubbio, la più estesa nella tutela dei marchi negli Stati Uniti, sebbene siano, tuttora, in vigore anche normative locali, che variano da Stato a Stato. Con l’introduzione della suddetta normativa a livello federale è, pertanto, possibile registrare il marchio federale USA, avente validità in tutti gli stati della Confederazione.
Per soddisfare il requisito della novità è necessario, innanzitutto, che il marchio prescelto sia disponibile. A questo scopo, e per evitare il rischio di investire, inutilmente, in un marchio ed essere poi costretti a sospenderne l’uso perché avvenuto a danno del suo legittimo titolare, è necessario condurre un’attenta ricerca preventiva, volta a verificare la presenza sul mercato di eventuali marchi, potenzialmente, in conflitto con quello che si intende utilizzare. Tale ricerca, che dovrebbe essere la più ampia possibile, deve rivolgersi tanto alle registrazioni federali, che a quelle statali, prendendo in esame non solo le richieste di registrazione pendenti o abbandonate, ma anche le registrazioni scadute. Sebbene anche la ricerca più approfondita non possa garantire il completo raggiungimento dell’obiettivo, basandosi su di una serie di databases che, per la natura stessa della legge sui marchi, non potranno mai essere completamente aggiornati o sufficientemente ampi, l’esperienza ha, tuttavia, dimostrato che, nella stragrande maggioranza dei casi, essa consente di stabilire con notevole successo la disponibilità o meno del marchio prescelto.
Negli Stati Uniti esistono due soli modi per acquisire il diritto di usare un determinato marchio: 1) essere i primi ad usare quel marchio sul mercato, o 2) essere i primi a registrarlo presso le competenti autorità statali e/o federali. Usare per primi un marchio, significa, essere i primi a vendere sul mercato un prodotto contraddistinto da quel marchio. Il diritto di utilizzare un marchio è, tuttavia, limitato all’area geografica, nella quale il prodotto, associato a quel marchio, viene, effettivamente, venduto ed, eventualmente, alla zona limitrofa, nella quale ci si attende, ragionevolmente, di vendere quel prodotto in futuro. Se, ad esempio, io sono il primo, a Boston, a vendere la pizza con il nome di “Broadway Pizza”, avrò, probabilmente, il diritto di usare quel marchio per vendere la mia pizza, non solo a Boston, ma anche in un’area più estesa, nella quale si presume che, in futuro, potrò decidere di vendere il mio prodotto. Potrò, quindi, impedire ad altri di aprire pizzerie con lo stesso nome, all’interno della mia zona di mercato, ma non potrò fare, altrettanto, nei confronti di un terzo, che decida di aprire una pizzeria “Broadway Pizza” a Los Angeles.
L’altro modo per acquisire il diritto di usare un marchio è quello di registrarlo presso i competenti uffici statali e/o federali. A differenza di quanto avviene per i marchi disciplinati dal diritto comune, ai quali la legge riconosce protezione per il semplice fatto di essere stati usati, i marchi registrati a livello statale o federale sono caratterizzati dall’ulteriore elemento della “pubblicità”, che, tra gli altri vantaggi, consente al titolare di dimostrare in giudizio, con una certa facilità, la priorità temporale del proprio marchio e la sua estensione territoriale, evitando così che terzi possano utilizzare marchi simili o uguali. La registrazione statale è, certamente, un primo passo verso la formalizzazione di un marchio. Si tratta, ovviamente, di una registrazione, che ha valore soltanto nello Stato o negli Stati in cui avviene, con tutte le difficoltà derivanti dalla diversità delle leggi vigenti in ciascuno Stato della Confederazione americana e dalle non infrequenti diverse interpretazioni provenienti dalle varie corti statali. In linea di massima, la registrazione statale è consigliabile per chi opera a livello locale, nei casi in cui il titolare non abbia interesse a dimostrare un uso del proprio marchio, che vada al di fuori dei confini di un determinato Stato.
Una registrazione statale non è, invece, consigliabile a chi intenda promuovere i propri prodotti su scala nazionale o desideri, comunque, dedicarsi al commercio interstatale: i diritti di cui gode, infatti, il titolare di un marchio registrato presso le autorità federali prevalgono, in linea di massima, su quelli di colui, che si è limitato ad una registrazione statale.
Per rafforzare la protezione già riconosciuta dalla common law a tutti i marchi, registrati e non, il Congresso degli Stati Uniti ha creato un sistema di registrazione, che viene gestito, a livello federale, dall’Ufficio Marchi e Brevetti di Washington D.C..
Tale registrazione conferisce al titolare del marchio una serie considerevole di vantaggi ad un costo ragionevole. Tra questi, quello, probabilmente, più evidente è che i diritti conseguenti ad una registrazione federale sono dotati di un valore, che si estende a tutto il territorio degli Stati Uniti, indipendentemente, dall’area geografica, nella quale il marchio viene, effettivamente, utilizzato.
La domanda di registrazione, contenente i documenti e le informazioni previste dalla legge, viene sottoposta ad esame di validità da parte dell’Ufficio Marchi e Brevetti. Dopo circa quattro mesi dal deposito, la domanda viene esaminata da un funzionario, il quale si pronuncia sulla “registrabilità” del marchio. In caso di esito negativo della pronuncia, verrà emessa una conseguente decisione di rigetto, attraverso la quale verranno, altresì, comunicate le motivazioni, a supporto del rigetto ed evidenziati gli eventuali accorgimenti necessari per correggere i difetti riscontrati nella domanda. Il richiedente avrà, quindi, sei mesi di tempo, a decorrere dal ricevimento della decisione, per attivarsi; in caso di mancata attivazione, la domanda di registrazione verrà ritenuta abbandonata.
In caso le misure adottate dal richiedente dovessero risultare, comunque, insufficienti, il funzionario provvederà ad emettere un provvedimento di rigetto definitivo, contro il quale il richiedente avrà, tuttavia, la possibilità di appellarsi davanti ad apposita sezione speciale dell’Ufficio Marchi e Brevetti.
Nel caso, invece, di approvazione della domanda di registrazione, verrà disposta la pubblicazione del marchio sulla Gazzetta Ufficiale dell’Ufficio Marchi e Brevetti e verrà informato il richiedente della relativa data di pubblicazione.
La pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale ha lo scopo di consentire a chiunque abbia motivo di ritenersi danneggiato dalla registrazione di quel marchio, di farvi opposizione entro 30 giorni dalla data di pubblicazione.
Trascorsi 30 giorni, senza che sia stata presentata alcuna opposizione, si provvederà alla registrazione del marchio. E’, tuttavia, possibile per un terzo opporsi alla registrazione anche dopo che il marchio sia stato già registrato, attraverso la presentazione di apposita richiesta di cancellazione.
Sia la procedura di opposizione che quella di cancellazione si svolgono in maniera formale, seppur abbreviata, davanti ad una sezione speciale dell’Ufficio Marchi e Brevetti di Washington.
La registrazione federale ha una durata di 10 anni e può essere rinnovata, indefinitamente. Durante i primi 5 anni dalla data di registrazione è, tuttavia, necessario depositare una dichiarazione giurata, che comprovi l’effettivo utilizzo del marchio nell’ambito del commercio interstatale. Il mancato deposito di tale dichiarazione può comportare la cancellazione del marchio.
Aprire una società negli Stati Uniti: considerazioni introduttive
Negli Stati Uniti il diritto societario è materia rimessa alla competenza dei singoli Stati della Confederazione. Ogni Stato ha, pertanto, la sua legislazione, che stabilisce le regole essenziali per la vita della società. Questo significa che gli affari interni di una società sono sempre disciplinati dalla legge dello Stato, nel quale la società è stata costituita, anche qualora la società decida di operare al di fuori dei confini dello Stato di costituzione. La legge consente a qualunque società, sia essa costituita negli Stati Uniti che all’estero, la possibilità di svolgere le proprie attività commerciali in tutti gli Stati, che compongono la Confederazione, previa apposita autorizzazione, rilasciata dalle competenti autorità locali.
La scelta dello Stato, nel quale costituire la sede legale della propria società, può risultare, dunque, estremamente, importante per l’azienda straniera, che intenda operare nel mercato statunitense. Tale scelta determinerà, infatti, non solo la legge applicabile, ma anche il regime fiscale, al quale la società verrà sottoposta. Negli Stati Uniti, il principio vigente prevede, in proposito, che una società sia soggetta a tassazione sia nello Stato di costituzione che in quello in cui produce reddito, qualora, ovviamente, quest’ultimo risulti diverso dal primo. Le aliquote sono ovviamente diverse da Stato a Stato. A far data dal 1° gennaio 2016, nello Stato di New York l’aliquota fiscale sui redditi prodotti dalle società è scesa dal 7.1% al 6.5%.
LE ALIQUOTE FISCALI STATALI SUI REDDITI DELLE SOCIETA’ (Aggiornate al 1° gennaio 2016)
Stato Aliquota
ALABAMA 6.5
ALASKA 0 – 9.4
ARIZONA 5.5
ARKANSAS 1.0 – 6.5
CALIFORNIA 8.84
COLORADO 4.63
CONNECTICUT 7.5
DELAWARE 8.7
FLORIDA 5.5
GEORGIA 6.0
HAWAII 4.4 – 6.4
IDAHO 7.4
ILLINOIS 7.75
INDIANA 6.5
IOWA 6.0 – 12.0
KANSAS 4.0
KENTUCKY 4.0 – 6.0
LOUISIANA 4.0 – 8.0
MAINE 3.5 – 8.93
MARYLAND 8.25
MASSACHUSETTS 8.0
MICHIGAN 6.0
MINNESOTA 9.8
MISSISSIPPI 3.0 – 5.0
MISSOURI 6.25
MONTANA 6.75
NEBRASKA 5.58 – 7.81
NEVADA nulla
NEW HAMPSHIRE 8.5
NEW JERSEY 9.0
NEW MEXICO 4.8 – 6.6
NEW YORK 6.5
NORTH CAROLINA 4.0
NORTH DAKOTA 1.48 – 4.53
OHIO nulla
OKLAHOMA 6.0
OREGON 6.6 – 7.6
PENNSYLVANIA 9.99
RHODE ISLAND 7.0
SOUTH CAROLINA 5.0
SOUTH DAKOTA nulla
TENNESSEE 6.5
TEXAS nulla
UTAH 5.0
VERMONT 6.0 – 8.5
VIRGINIA 6.0
WASHINGTON nulla
WEST VIRGINIA 6.5
WISCONSIN 7.9
WYOMING nulla
DIST. OF COLUMBIA 9.4
Ogni società sarà, inoltre, soggetta ad imposizione fiscale a livello federale, indipendentemente, dallo Stato in cui è costituita o produce reddito. Le aliquote sono progressive, in base a scaglione di reddito e, a tutt’oggi, sono le seguenti:
Reddito Aliquota Imponibile
(superiore a – non superiore a)
$ 0 – $ 50,000 15%
$50,000 – $75,000 $7,500 +25% della somma che supera $50,000
$75,000 – $100,000 $13,750 +34% della somma che supera $75,000
$100,000 – $335,000 $22,250 +39% della somma che supera $100,000
$335,000 – $10,000,000 $113,900 +34% della somma che supera $335,000
$10,000,000 – $15,000,000 $3,400,000 +35% della somma che supera $10,000,000
$15,000,000 – $18,333,333 $5,150,000 +38% della somma che supera $15,000,000
$18,333,333 e oltre 35%
Altrettanto importante per l’operatore straniero sarà stabilire quale, tra le varie tipologie societarie, esistenti nel panorama statunitense, si addice, maggiormente, ai propri obiettivi commerciali.
Le tipologie, più frequentemente, utilizzate negli Stati Uniti sono le corporations e le limited liability companies, assimilabili, rispettivamente, alle S.p.A. e alle S.r.l. italiane.
La costituzione di una società richiede tempi, decisamente, molto più brevi rispetto a quelli, a cui siamo abituati in Italia. Non è previsto, infatti, l’intervento del notaio e tutti gli adempimenti burocratici legati alla costituzione sono, conseguentemente, affidati all’avvocato, dalla redazione e deposito dell’atto costitutivo, presso le autorità statali competenti, alla predisposizione dello statuto e dei verbali di assemblea.
Le società, che intendono svolgere attività imprenditoriali negli Stati Uniti, invece, di procedere alla costituzione di una società statunitense possono optare per l’apertura di una propria filiale. Si tratta, tuttavia, di una scelta, quest’ultima, che deve essere valutata con estrema attenzione, viste le implicazioni, non sempre favorevoli, che ne possono conseguire.
Negli Stati Uniti, non è previsto, a differenza di quanto avviene in Italia, l’obbligo di sottoscrivere e depositare un capitale sociale minimo. Le società devono, tuttavia, disporre di un capitale autorizzato, corrispondente, cioè, al numero di azioni, che la società è autorizzata ad emettere.
Ai sensi della normativa vigente in materia societaria, non è richiesto, inoltre, ai soci, agli amministratori e/o agli eventuali funzionari di risiedere, legalmente, negli Stati Uniti o di essere cittadini americani. Tuttavia, il fatto di essere socio, amministratore o funzionario di una società statunitense non conferisce di per sé il diritto a ricevere un visto di ingresso o il permesso di residenza.
QUALI VALUTAZIONI OCCORRE EFFETTUARE QUANDO SI DECIDE DI ACQUISTARE UN IMMOBILE NEGLI STATI UNITI?
QUALI VALUTAZIONI OCCORRE EFFETTUARE QUANDO SI DECIDE DI ACQUISTARE UN IMMOBILE NEGLI STATI UNITI?
L’acquisto di un immobile all’estero, soprattutto, se a titolo di investimento, rappresenta sempre un passo, estremamente, delicato da compiere, sul quale occorre riflettere con attenzione. Le principali difficoltà sono, di regola, legate al disagio derivante dal gestire una trattativa in una lingua straniera, dalla necessità di familiarizzare con usi commerciali, talvolta, estremamente, diversi da quelli ai quali si è abituati e dal confrontarsi con una normativa ed un sistema legale, in alcuni casi, assai lontani da quelli vigenti nel proprio Paese.
Queste considerazioni appaiono quanto mai appropriate, qualora l’immobile, che si intende acquistare, si trovi negli Stati Uniti d’America, che, pur rappresentando una meta turistica molto “gettonata”, sono, tuttavia, un Paese, che può creare notevoli difficoltà a coloro, che decidono di effettuare un investimento in loco.
Di qui, l’importanza, di conoscere in anticipo i principali passaggi da seguire nella fase di acquisto, dalla scelta del broker più adatto, all’eventuale opportunità di procedere alla costituzione di una società di diritto americano, alla quale intestare l’immobile, dalla negoziazione del contratto di acquisto con il venditore, alla gestione della fase del rogito, che, negli Stati Uniti, è gestita, interamente, dagli avvocati, a differenza di quanto avviene, ad esempio, in Italia, dove le transazioni immobiliari sono di esclusiva competenza dei notai.
Negli Stati Uniti, esistono, inoltre, diverse tipologie abitative, identificate attraverso una terminologia, che, per numerosi investitori stranieri, può risultare “indigesta”. La confusione è destinata ad aumentare, ulteriormente, se si affronta la questione legata alle diverse tipologie di diritti di proprietà immobiliare, previste dalle normative vigenti nei diversi Stati americani.
Un’ulteriore classificazione, fonte di notevoli incertezze, è quella che contrappone i Condomini alle Cooperative, che solo a New York rappresentano ben l’80% dell’intero mercato immobiliare. Mentre queste ultime sono, infatti, disciplinate, a livello normativo, dalle leggi sulle società per azioni, i Condomini sono, invece, regolati da specifici statuti.